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Papa Francesco: “I fedeli devono essere per il vescovo ciò che il vitello è per la mucca”

Molti miei lettori, scandalizzati dalla situazione attuale della chiesa cattolica, mi hanno domandato se fosse lecito per un cattolico far presente la propria critica ai sacerdoti, ai vescovi e finanche al papa. È una domanda che mi è stata posta dai più con dolore e disagio, alla quale è giusto rispondere. La risposta a questa domanda è: “certo che sì”. Il Codice di Diritto Canonico vigente, infatti, regola questo diritto/dovere con le seguenti parole:

«In modo proporzionato alla scienza, alla competenza e al prestigio di cui godono, essi hanno il diritto, e anzi talvolta anche il dovere, di manifestare ai sacri Pastori il loro pensiero su ciò che riguarda il bene della Chiesa; e di renderlo noto agli altri fedeli, salva restando l’integrità della fede e dei costumi e il rispetto verso i Pastori, tenendo inoltre presente l’utilità comune e la dignità delle persone» (CIC 212, §3)

Vorrei specificare che questo diritto/dovere lo si deve esercitare con molta serietà soprattutto nei confronti di papa Francesco a motivo del suo invito al “dialogo franco” rivolto e sollecitato ripetutamente[1], anche di recente, con parole molto chiare:

«Vi invito allora […] a esprimervi con franchezza e in tutta libertà, l’ho detto e lo ripeto. Con “faccia tosta”»[2].

Badate bene che questa di papa Francesco è una autentica caratteristica della sua idea di pastorale che già aveva ben maturato quando ancora era vescovo ausiliare di Buenos Aires. Ne troviamo traccia per esempio in una lettera datata 14 ottobre 1992 che l’allora mons. Jorge Mario Bergoglio inviò allo storico cattolico Antonio Caponetto, in cui scrisse:

«San Cesareo di Arles diceva che i fedeli devono essere ― per il vescovo ― ciò che il vitello è per la mucca: così come il vitello dà musate alla mammella perché discenda latte, così i fedeli devono bussare, dare musate al vescovo perché gli dia il latte della divina sapienza. Aveva ragione il santo vescovo. E a mio umile intendimento, il migliore aiuto che un vescovo può avere dai propri fedeli è che non lo lascino tranquillo»[3]

Il medesimo concetto Bergoglio lo ha ribadito anche da papa in un suo Regina Coeli[4]. Sono parole bellissime che fanno eco a quelle altre pronunciate da sant’Agostino:

«Ma anche voi sostenetemi, perché, secondo il comando dell’Apostolo, portiamo i pesi gli uni gli altri, e così adempiamo la legge di Cristo… (Gal 6,2). Se mi atterrisce l’essere per voi, mi consola l’essere con voi. Perché per voi sono vescovo, con voi sono cristiano. Quello è nome di ufficio, questo grazia; quello è nome di pericolo, questo di salvezza» (Sant’Agostino, Sermo 340, 1: PL 38,1483).

La verità di queste parole mi commuove e mi trasmette il dovere di “non lasciare tranquillo” il papa affinchè possa darci “il latte della divina sapienza”.  Non l’ho lasciato tranquillo, per esempio, rilasciando l’intervista intitolata: “Ma papa Francesco crede all’inferno?“, nella quale, accogliendo con amore il suo invito e animato da umile franchezza verso di lui, nel rispetto del suo ministero petrino e desideroso di difendere l’integrità della fede e dei costumi a vantaggio dei figli che gli sono stati affidati, denunciavo un’oggettiva inesattezza relativa all’inferno da lui proferita in un’omelia.

L’emozione posta a criterio di verità

Nonostante il mio articolo fosse corredato di note e citazioni documentali per favorirne una lettura critica, alcuni lettori si sono comunque scandalizzati perché le mie parole contrastavano con il “sentimento” che nutrivano per papa Francesco e mi hanno attribuito intenzioni diverse da quelle che in realtà mi hanno animato. Non mi stupisco. Viviamo in un tempo nel quale la caratteristica precipua del pensiero dominante è la “fluidità”. Essa ha indotto molti a rifugiarsi in quel qualcosa che è ancora percepito come autentico e vero: il proprio sentimento, che per alcuni diventa il principale criterio di verità. È così che in questo nostro tempo definibile senza esagerazione come il tempo della “post-verità”, è più facile parlare di verità al plurale che di Verità al singolare, si è più ricettivi all’emozione indottaci che alla verità oggettiva trasmessaci e si presta più attenzione alla persuasione soggettiva del comunicatore, che alle fonti documentali a cui egli attinge per sostenere le proprie asserzioni. Per questo, anche quando con documenti alla mano si dimostrano ambigue deformazioni del pensiero cattolico negli interventi di papa Francesco, molti di coloro che ascoltano per valutare quanto leggono fanno appello al proprio “cuore”, cioè al sentimento che nutrono verso di lui, senza avvedersi di essersi affidati al criterio più impreciso che ci sia. Del cuore, inteso come sentimento, infatti, la sacra scrittura dice:

«Il cuore dell’uomo inganna più di ogni altra cosa: è incorreggibile» (Ger 17,9, CEI 1974).

Oppure:

«Niente è più infido del cuore e difficilmente guarisce! Chi lo può conoscere?» (Ger 17,9, CEI 2008)

È proprio a causa di questo erroneo criterio che molti cattolici hanno sostituito a un’autentica devozione al romano pontefice una vera e propria papolatria sentimentale, che li rende vittime della crisi dottrinale della chiesa il cui maggior artefice, visto il ruolo che ricopre, è proprio l’attuale romano pontefice.

La storia insegna

A quei cattolici che inorridiscono al pensiero che il Vicario di Cristo possa dire inesattezze teologiche, temendo che ciò possa determinare la morte della Chiesa Cattolica, dico: consultate la storia della chiesa e vedrete che in essa si sono già dati casi simili che non hanno determinato la sua morte. Guardate poi meglio in tali storie e vedrete che la chiesa è ancora viva non a motivo di coloro che volevano tanto bene al papa da credere che egli fosse superiore alla dottrina già insegnata dalla Chiesa, ma grazie a coloro che amavano così tanto la verità cattolica da avere l’audacia di correggere il pontefice.

Ebbene, per portarvi le ragioni di quanto scrivo, e che cioè non cade la Chiesa Cattolica se il papa proferisce inesattezze teologiche, vi presento il caso di papa Giovanni XXII. Non lo faccio a caso. Lo cito perché questo fu il pontefice per il quale si rese necessaria la definizione contenuta nella Costituzione Benedictus Deus di papa Benedetto XII, da me citata nella mia intervista.

Dunque, «contrariamente alla concezione teologica già allora comune Giovanni XXII sosteneva l’opinione che le anime dei defunti dimoranti “sotto l’altare” di Dio (cf. Ap. 6,9) avessero solo la visione della natura umana di Cristo e venissero ammesse alla piena beatitudine unicamente dopo il giudizio universale. Egli presentò questa sua concezione soprattutto in tre omelie: il primo novembre e il 15 dicembre 1331. […] Nella seconda omelia il papa spiega che il premio della visione di Dio è dovuta […] solo all’uomo come soggetto che nella resurrezione ha corpo e anima uniti, non già all’anima separata dal corpo. Nella terza omelia afferma che sia i demoni che gli uomini riprovati andranno al castigo eterno dell’inferno solo dopo il giudizio universale. Per avvalorare la sua concezione Giovanni XXII redasse nell’anno 1333 anche una dissertazione.

Il re Filippo VI di Francia fece fare un esame dell’Inquisizione. L’esame iniziò il 19 dicembre 1333. Da parte sua anche il papa convocò una commissione di cardinali e di teologi, che il 3 gennaio 1334 in concistoro lo indusse a dichiarare che avrebbe revocato la sua concezione, se essa fosse trovata in contrapposizione alla comune dottrina della chiesa. Il 3 dicembre 1334, un giorno prima della sua morte, egli revocò solennemente in presenza del collegio dei cardinali la sua concezione con le parole tramandate (nella bolla Ne super his), che fu emanata dal suo successore Benedetto XII»[5].

Se per una tale questione dogmatica, che non influisce direttamente sulla morale, il collegio cardinalizio di allora è stato così saldo nel difendere la verità tradizionale, cosa si dovrebbe fare per ciò che ha affermato papa Francesco, che, come ho sottolineato nella mia intervista, può influire negativamente sulla morale? Come minimo credo che, per togliere ogni dubbio sulla probabile eterodossia del pontefice e per indurre i fedeli a recepire le parole pronunciale nella sua omelia con il criterio dell’analogia della fede[6], gli si debba consigliare di specificare il suo pensiero in un’altra sua omelia. Come sarebbe bello sentire un papa che fa ammenda per l’espressione verbale imprecisa! Tutti i cattolici sarebbero edificati dalla sua autentica umiltà e dalla sua corretta dottrina. Tutti si sentirebbero confermati nella fede.

Preghiamo per papa Francesco.

Flaviano Patrizi

 


Note

[1] Cfr. Sinodo per la famiglia 2015, Introduzione del Santo Padre Francesco, Aula Del Sinodo, Lunedì, 5 Ottobre 2015.

[2] Discorso pronunciato all’apertura dell’Assemblea Plenaria della Riunione pre-sinodale in preparazione alla XV,  Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, 18 marzo 2018.

[3] Antonio Caponetto, Iglesia traicionada el sacerdiocio de Judas, Editorial Santiago Apóstol, Buenos Aires, 2010.

[4] Papa Francesco, Regina Coeli, piazza San Pietro, domenica 11 maggio 2014.

[5] Heinrich Denzinger, Enchiridion Symbolorum, nota introduttiva ai nn 990-991, EDB, 1996.

[6] Vd. Catechismo della Chiesa Cattolica, cit., nn. 1010-1060. Secondo il criterio dell’analogia della fede gli eventuali interventi meno chiari del pontefice andrebbero interpretati a favore della corretta fede cattolica.