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POLITICI “CATTOLICI” PRO ABORTO E DIRITTO CANONICO. UN CASO DI NON AMMISSIONE ALLA COMUNIONE EUCARISTICA?

Stretta di mano massonica

La Speaker della Camera americana, Nancy Pelosi, incontra il papa a Roma e nonostante le sue posizione pro aborto riceve la comunione a San Pietro.

Cerchiamo di capire cosa insegna la Chiesa a proposito dell’accesso alla comunione dei politici pro aborto.

1. Attività politica e promozione dell’aborto negli USA. L’insegnamento della Congregazione per la dottrina della fede

«Quando l’azione politica viene a confrontarsi con principi morali che non ammettono deroghe, eccezioni o compromesso alcuno, allora l’impegno dei cattolici si fa più evidente e carico di responsabilità. Dinanzi a queste esigenze etiche fondamentali e irrinunciabili, infatti, i credenti devono sapere che è in gioco l’essenza dell’ordine morale, che riguarda il bene integrale della persona. È questo il caso delle leggi civili in materia di aborto e di eutanasia […], che devono tutelare il diritto primario alla vita a partire dal suo concepimento fino al suo termine naturale».

Con queste parole, la Congregazione per la dottrina della fede – coadiuvata dal Pontificio Consiglio per i laici – nel 2002 identificava uno dei principali punti nodali della partecipazione dei fedeli al dibattito culturale e politico nelle società democratiche contemporanee: tema nei confronti del quale l’insorgere di «orientamenti ambigui e posizioni discutibili» aveva dimostrato l’opportunità di dedicare alcune chiarificazioni fondamentali, che si erano sostanziate nella Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica.

Nonostante il tempo trascorso e la chiarezza di tali affermazioni, è agevole riconoscere come i problemi denunciati dalla Congregazione non appartengano al passato: circostanza che del resto non risulta certo circoscritta al solo contesto italiano, apparendo invece comune a molte realtà politiche nel mondo. Com’è noto, dibattiti particolarmente accesi sono sorti ad esempio in ambito statunitense, sia in conseguenza dell’approvazione di legislazioni estremamente permissive nei confronti delle pratiche abortive, adottate anche attraverso il sostegno di cattolici in ruoli istituzionali rilevanti, sia – com’era inevitabile – in seguito all’elezione alla stessa Presidenza del Paese di un candidato cattolico, che su questa materia ha però sostenuto posizioni in contrasto con il magistero appena richiamato[1]. Al centro delle discussioni sviluppatesi anche all’interno dell’Episcopato locale, vi è in particolare la questione relativa alla non ammissione di questi soggetti alla Sacra Comunione, che il can. 915 del Codex Iuris Canonici prevede non solo per gli scomunicati e gli interdetti (una volta che la pena sia stata irrogata o dichiarata), ma pure per «gli altri che ostinatamente perseverano in peccato grave manifesto»: categoria nella quale ci si è quindi interrogati se rientrino anche i politici cattolici che promuovono l’aborto.

2. “Perseveranza ostinata in peccato grave manifesto” e “manifesta indisposizione morale”: il can. 915

Il significato di tale norma, anche al di là di questo specifico contesto, è tuttavia oggetto di numerosi fraintendimenti. Alcuni riguardano la natura stessa del divieto, spesso erroneamente qualificato come ‘sanzione’ – una materia, quella delle pene, che nel Codice riceve peraltro una diversa collocazione, essendo trattata al Libro sesto –: al contrario, come spiegava San Giovanni Paolo II al n. 84 dell’Esortazione Apostolica Familiaris Consortio (con riferimento particolare ai fedeli civilmente divorziati e risposati, ma enunciando un principio comune a tutti i casi analoghi), il mancato accesso alla Comunione eucaristica dei soggetti indicati al can. 915 discende dal fatto che «sono essi a non poter esservi ammessi, dal momento che il loro stato e la loro condizione di vita contraddicono oggettivamente a quell’unione di amore tra Cristo e la Chiesa, significata e attuata dall’Eucaristia»[2].

Non pochi malintesi derivano invece dalla mancanza di un’adeguata distinzione tra il contenuto della disposizione in esame e quello del successivo can. 916, il quale – in continuità con il n. 1457 del Catechismo della Chiesa cattolica – ricorda come siano tenuti ad astenersi dal ricevere la Sacra Comunione tutti coloro che sono consapevoli di trovarsi in peccato grave. Pur riguardando evidentemente lo stesso ambito, le due proibizioni si riferiscono infatti a destinatari e a circostanze differenti, così come diverso ne è il presupposto, e non possono perciò essere confuse.

Per non cadere in simili equivoci, conviene fare riferimento ad altri due testi che proprio su questi profili hanno insistito con grande chiarezza: la Dichiarazione circa l’ammissibilità alla Santa Comunione dei divorziati risposati del Pontificio Consiglio per i testi legislativi (2000), anch’essa rivolta in primo luogo a questa specifica fattispecie, ma contenente indicazioni generali valide per l’esegesi del can. 915 a prescindere dai singoli casi[3], e il n. 37 della Lettera Enciclica Ecclesia de Eucharistia del 2003, che richiamando espressamente il contenuto della stessa norma ne è stata considerata in dottrina un’interpretazione autentica[4]. In quest’ultimo documento, in particolare, dopo avere ricordato che «il giudizio sullo stato di grazia, ovviamente, spetta soltanto all’interessato, trattandosi di una valutazione di coscienza» – precisazione relativa al principio enunciato al can. 916 –, San Giovanni Paolo II proseguiva affermando:

«nei casi però di un comportamento esterno gravemente, manifestamente e stabilmente contrario alla norma morale, la Chiesa, nella sua cura pastorale del buon ordine comunitario e per il rispetto del Sacramento, non può non sentirsi chiamata in causa. A questa situazione di manifesta indisposizione morale fa riferimento la norma del Codice di Diritto Canonico sulla non ammissione alla comunione eucaristica di quanti “ostinatamente perseverano in peccato grave manifesto”». Allo stesso modo, il Pontificio Consiglio individuava analiticamente gli elementi essenziali dell’ultima fattispecie elencata dal can. 915 in tre condizioni: «a) il peccato grave, inteso oggettivamente, perché dell’imputabilità soggettiva il ministro della Comunione non potrebbe giudicare; b) l’ostinata perseveranza, che significa l’esistenza di una situazione oggettiva di peccato che dura nel tempo e a cui la volontà del fedele non mette fine, non essendo necessari altri requisiti (atteggiamento di sfida, ammonizione previa, ecc.) perché si verifichi la situazione nella sua fondamentale gravità ecclesiale; c) il carattere manifesto della situazione di peccato grave abituale».

Si rende così più facilmente comprensibile la distinzione tra le due norme. Il can. 916 si rivolge direttamente a quei soggetti che siano consapevoli di trovarsi essi stessi in peccato mortale – cioè di avere commesso un peccato «che ha per oggetto una materia grave e che, inoltre, viene commesso con piena consapevolezza e deliberato consenso», secondo la definizione riportata al n. 1857 del Catechismo –, ricordando loro il conseguente divieto di comunicarsi al Corpo del Signore senza avere premesso la confessione sacramentale («a meno che», prevede l’unica eccezione contemplata dallo stesso canone, «non vi sia una ragione grave e manchi l’opportunità di confessarsi; nel qual caso si ricordi che [il fedele] è tenuto a porre un atto di contrizione perfetta, che include il proposito di confessarsi quanto prima»)[5]. Il can. 915, pur producendo i propri effetti nei confronti dei fedeli appartenenti alle categorie segnalate, è invece indirizzato in primo luogo ai ministri del Sacramento, che sono fatti destinatari del divieto di ammettere i primi alla Sacra Comunione secondo una valutazione che ha per oggetto esclusivamente ‘un comportamento esterno gravemente, manifestamente e stabilmente contrario alla norma morale’, prescindendo quindi da qualsiasi considerazione circa l’imputabilità soggettiva[6].

La rilevanza di tale diversità di prospettive emerge anche con riguardo ai ‘beni’ tutelati dal can. 915, tra i quali lo stesso n. 37 di Ecclesia de Eucharistia menziona pure la ‘cura pastorale del buon ordine comunitario’. Quest’ultimo profilo si riferisce in particolare alla necessità di prevenire i rischi di scandalo nella comunità dei fedeli: termine che – è bene precisarlo – in questo contesto non è utilizzato per indicare il significato corrente del concetto di ‘scandalo’, bensì quello proprio illustrato al n. 2284 del Catechismo, al quale corrisponde cioè «l’atteggiamento o il comportamento che induce altri a compiere il male». Tale accezione è d’altronde confermata anche dalla Dichiarazione del Pontificio Consiglio, che spiega ulteriormente come lo scandalo continui a sussistere anche nel caso in cui «purtroppo, siffatto comportamento non destasse più meraviglia: anzi è appunto dinanzi alla deformazione delle coscienze, che si rende più necessaria nei Pastori un’azione, paziente quanto ferma, a tutela della santità dei sacramenti, a difesa della moralità cristiana e per la retta formazione dei fedeli»[7].

3. Politici cattolici e ‘comportamenti esterni gravemente, manifestamente e stabilmente contrari alla norma morale’: un caso concreto di applicazione della norma?

Alla luce di tali elementi, è perciò possibile trarre alcune considerazioni anche in merito al caso particolare da cui abbiamo preso le mosse. Quanto alla gravità del comportamento, se la costante e inequivocabile condanna dell’aborto nel magistero della Chiesa non richiede ulteriori specificazioni, indicazioni sufficientemente chiare possono riscontrarsi riguardo alla promozione di tali pratiche per via legislativa. Innanzitutto nello stesso Catechismo: che non solo al n. 2273 ricorda che «il diritto inalienabile alla vita di ogni individuo umano innocente rappresenta un elemento costitutivo della società civile e della sua legislazione», ma che al n. 2286, per ricollegare al tema dello scandalo, precisa come quest’ultimo possa essere altresì provocato «dalla legge o dalle istituzioni, dalla moda o dall’opinione pubblica», rendendosi di conseguenza colpevoli di scandalo «coloro che promuovono leggi o strutture sociali» che portano alla degradazione dei costumi, alla corruzione della vita religiosa o a condizioni sociali che rendono ardua o praticamente impossibile una condotta di vita cristiana.

Sul punto si soffermava pure la già richiamata Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica, che citava espressamente il n. 73 della Lettera Enciclica Evangelium Vitae per evidenziare che «Giovanni Paolo II, continuando il costante insegnamento della Chiesa, ha più volte ribadito che quanti sono impegnati direttamente nelle rappresentanze legislative hanno il “preciso obbligo di opporsi” ad ogni legge che risulti un attentato alla vita umana»; questione che la stessa Congregazione per la dottrina della fede aveva affrontato nella Dichiarazione De abortu procurato del 1974, al cui n. 22 veniva sottolineato che non è lecito «né partecipare ad una campagna di opinione in favore di una legge siffatta, né dare ad essa il suffragio del [proprio] voto». Ancora più esplicite le osservazioni contenute nel memorandum Worthiness to Receive Holy Communion: General Principles del 2004, inviato all’Episcopato statunitense dall’allora Cardinale Prefetto Joseph Ratzinger proprio in occasione del menzionato dibattito e nel quale il caso di «a Catholic politician […] consistently campaigning and voting for permissive abortion and euthanasia laws» veniva indicato espressamente come un’ipotesi di applicazione del can. 915[8].

Quest’ultima precisazione, riferendosi alla stabilità della condotta, fornisce informazioni utili anche a proposito del carattere della ‘perseveranza ostinata’, che – riguardando la sola continuità nel tempo del comportamento, secondo quanto chiarito del Pontificio Consiglio per i testi legislativi – nel caso di specie deve sostanziarsi in una posizione politica portata avanti in maniera sistematica: circostanza che, pur complicando il compito del sacerdote sul piano pastorale, rende amaramente più semplice la sua valutazione su quello giuridico. Circa l’ultima condizione di cui al can. 915, infine, nessun problema interpretativo particolare sembra essere sollevato dal caso dei fedeli impegnati in contesti istituzionali ed elettorali, essendo il primo per sua natura ‘manifesto’ e il secondo addirittura attivamente indirizzato a raggiungere il più ampio pubblico possibile: cosicché verrebbe anzi da dire che maggiore è la ‘fortuna politica’ del soggetto in questione, minori sono i dubbi che si pongono riguardo a questo requisito[9].

È perciò in base a questi criteri che la Dichiarazione del Pontificio Consiglio per i testi legislativi riserva al sacerdote responsabile della comunità «il discernimento dei casi di esclusione dalla Comunione eucaristica dei fedeli, che si trovino nella descritta condizione». Questo non significa che al sacerdote sia affidata la facoltà di applicare o non applicare il can. 915, giacché (come sottolinea lo stesso documento al n. 4) «tenuto conto della natura della succitata norma […], nessuna autorità ecclesiastica può dispensare in alcun caso da quest’obbligo del ministro della sacra Comunione, né emanare direttive che lo contraddicano»: egli è invece tenuto a discernere, in coerenza con la disposizione e in virtù della sua conoscenza della comunità, se effettivamente ricorrono tutti i requisiti indicati dal canone, nonché a definire quale sia il percorso pastorale più opportuno da intraprendere caso per caso; aspetto a cui si rivolge il n. 3, ricordando che

«naturalmente la prudenza pastorale consiglia vivamente di evitare che si debba arrivare a casi di pubblico diniego della sacra Comunione. I Pastori devono adoperarsi per spiegare ai fedeli interessati il vero senso ecclesiale della norma, in modo che essi possano comprenderla o almeno rispettarla. Quando però si presentino situazioni in cui quelle precauzioni non abbiano avuto effetto o non siano state possibili, il ministro della distribuzione della Comunione deve rifiutarsi di darla a chi sia pubblicamente indegno. Lo farà con estrema carità, e cercherà di spiegare al momento opportuno le ragioni che a ciò l’hanno obbligato. Deve però farlo anche con fermezza, consapevole del valore che tali segni di fortezza hanno per il bene della Chiesa e delle anime»[10].

4. Lo sforzo della Conferenza episcopale USA, con particolare riferimento al ruolo del Vescovo

Sulla base dei principi descritti e sulla spinta delle circostanze concrete richiamate, nei tempi più recenti si è nuovamente acceso il dibattito interno all’Episcopato statunitense, mosso dall’intento di definire l’indirizzo comune che meglio permetta di far fronte all’angosciosa questione. In questa stessa cornice si colloca peraltro un elemento ulteriore, rappresentato dalla lettera inviata lo scorso 7 maggio dal Cardinale Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede al Presidente della relativa Conferenza episcopale. Il testo, nel guidare il percorso del clero nordamericano, rinvia a quella stessa Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica dalla quale abbiamo preso le mosse, indicandola come il punto fermo al quale i Vescovi devono fare riferimento nel procedere nella loro discussione, al fine di «discernere la migliore via da seguire per la Chiesa negli Stati Uniti per dar prova della grave responsabilità morale dei funzionari pubblici cattolici di proteggere la vita umana in tutti i suoi stadi»[11].

Il documento si sofferma in modo specifico su due aspetti. Da un lato, sul processo interno alla Conferenza episcopale, la cui unità – si sottolinea – deve il più possibile essere preservata dai rischi che l’esacerbarsi del confronto potrebbe comportare: in questo senso, la consapevolezza dell’urgenza di evitare dolorose lacerazioni nell’Episcopato locale dovrebbe impegnare i Vescovi, nella ricerca della giusta soluzione, a un dialogo ancor più approfondito e attento. Dall’altro, sul risultato di una simile discussione, il cui documento finale deve mirare a far comprendere nitidamente che «quanti sono impegnati direttamente nelle rappresentanze legislative hanno il preciso obbligo di opporsi ad ogni legge che risulti un attentato alla vita umana»: una dichiarazione, chiara e inequivocabile, di cui la missiva richiama pure la necessità di curare adeguatamente la stesura concreta, in modo tale da evitare di dare l’erronea impressione secondo cui, nel dedicare un’attenzione doverosamente alle legislazioni in materia di aborto e eutanasia, il magistero cattolico resterebbe invece indifferente nei confronti di ogni altro pur grave problema di ordine morale o sociale.

Quanto allo svolgimento della consultazione in corso e al corrispondente tentativo di formulare una dichiarazione comune, la lettera ricorda come tale sforzo non si basi ovviamente sull’obiettivo di delineare criteri validi per una sola categoria di individui – quelli impegnati nell’attività politica, appunto –, bensì sulla necessità di collocare tale fattispecie nel quadro generale dei principi e dei limiti riguardanti la partecipazione di tutti i fedeli alla Santissima Eucaristia. Rispetto a questo contesto di riferimento – le cui coordinate abbiamo qui cercato di illustrare, seppur rapidamente, almeno nelle loro linee essenziali –, il testo evidenzia l’importanza di mettere in atto quelle ‘cautele pastorali’ a cui faceva riferimento anche la Dichiarazione del Pontificio Consiglio per i testi legislativi, consistenti nell’instaurazione di un dialogo con il soggetto in questione: misura che – benché non richiesta come condizione ‘giuridicamente’ indispensabile dal canone – nei confronti di simili fedeli si rivela tanto più necessaria dal punto di vista pastorale in quanto capace di permettere al Vescovo sia di «comprendere la natura delle loro posizioni e la loro comprensione dell’insegnamento cattolico», ammonendoli circa l’incompatibilità tra le prime e il secondo, sia di assumere le precauzioni idonee a prevenire, per quanto possibile, i fraintendimenti e le strumentalizzazioni che il coinvolgimento della sfera politica inevitabilmente comporta.

In questa prospettiva – e in attesa di osservare se e a quali esiti giungerà la discussione avviatasi nella Conferenza episcopale statunitense –, si confermano perciò a pieno i principi richiamati. Il ruolo affidato al Vescovo non consiste infatti nello stabilire l’opportunità o meno di ricorrere al can. 915, bensì corrisponde alla medesima funzione – ‘trasposta’ a livello diocesano – che la citata Dichiarazione riservava al ‘sacerdote responsabile della comunità’: a lui è riconosciuto il dovere di garantire l’osservanza della norma, discernendo con attenzione se sussiste una situazione di ‘manifesta indisposizione morale’ secondo le condizioni descritte e valutando il corso pastorale più adeguato da adottare in circostanze tanto delicate.

Nel caso tale valutazione dia esito affermativo, egli sarà chiamato non ad infliggere una sanzione, ma esclusivamente a dichiarare l’effettivo riscontrarsi di un ‘comportamento esterno gravemente, manifestamente e stabilmente contrario alla norma morale’. Una simile statuizione, conformemente alla disposizione del codice e come già segnalato, risulterebbe peraltro indirizzata in via immediata non ai fedeli che ostinatamente perseverano in peccato grave manifesto, bensì a coloro che svolgono il ruolo di ministri della Comunione nella Diocesi, i quali sarebbero in questo modo portati a conoscenza del fatto che l’ammissione dei soggetti indicati è proibita dal diritto, nonché – implicitamente – delle conseguenze in cui essi stessi possono incorrere qualora tale precetto venisse violato: comunemente, infatti, si ritiene che una trasgressione in tal senso possa essere sanzionata a norma degli attuali cann. 1399 e 1389[12], il quale a partire dal prossimo 8 dicembre sarà sostituito, nella versione recentemente revisionata del summenzionato Libro sesto del Codex Iuris Canonici, dal can. 1378.

Proprio con riferimento a tale riforma, non sfugge peraltro come un fattore verosimilmente destinato a formare ulteriore oggetto di dibattito sia rappresentato dal dettato del nuovo can. 1379 § 4, il quale prevede che debba essere punito con la sospensione – alla quale possono eventualmente essere aggiunte altre pene secondo il can. 1336 §§2-4 – chi deliberatamente amministra un sacramento a colui al quale è proibito riceverlo: sebbene possa prospettarsi che ad escludere da tale disposizione la fattispecie di cui al can. 915 sia sufficiente il fatto che quest’ultima, come già sottolineato, non riveste natura di sanzione, è d’altra parte evidente come una formulazione tanto estesa – addirittura più ampia, almeno sul piano testuale, di quella utilizzata al can. 912, che si rivolge appunto a chi è ‘proibito dal diritto’ – non potrà che agitare una volta di più le acque di una discussione già non certo distesa[13].

Alla luce degli elementi fin qui sinteticamente tratteggiati, si comprende tanto la complessità quanto l’ineludibilità del compito a cui è chiamato il Vescovo: un incarico che i molteplici profili spinosi impongono di svolgere con attenzione e cautela, nell’inderogabile rispetto dell’obbligo e del magistero che ne informa il contenuto.

Alberto Tomer
Dottorando in Scienze Giuridiche
Alma Mater Studiorum – Università di Bologna
(fonte)


Note

[1] Per approfondimenti al riguardo, si vedano R.L. Burke, Prophecy for Justice. Catholic politicians and bishops, in America, CXC (2004), n. 20 del 21-28 giugno, pp. 11-15; Id., Canon 915: The Discipline Regarding the Denial of Holy Communion to Those Obstinately Persevering in Manifest Grave Sin, in Periodica de re canonica, XCVI (2007), pp. 3-58; T.D. Williams, On Refusing Holy Communion to Anti-Life Legislators: Canonical, Moral and Pastoral Considerations, in Alpha Omega, VII (2004), pp. 391-406; J.J. Coughlin, Canon Law. A Comparative Study with Anglo-American Legal Theory, New York, 2011, pp. 139-171; C.J. Chaput, Mr. Biden and the Matter of Scandal, pubblicato online in First Things il 12 aprile 2020 e consultabile all’indirizzo https://www.firstthings.com/web-exclusives/2020/12/mr-biden-and-the-matter-of-scandal. Per una più completa trattazione dell’oggetto del presente contributo, ci permettiamo inoltre di rinviare a A. Tomer, “Ad Sacram Communionem ne admittantur”: il can. 915 e la promozione dell’aborto da parte di cattolici impegnati nella vita politica alla luce di un recente decreto episcopale, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it), n. 4 del 2021, pp. 47-76.

[2] A questo proposito, C.J. Errázuriz M., Corso fondamentale sul diritto nella Chiesa, vol. II, I beni giuridici ecclesiali – La dichiarazione e la tutela del diritto nella Chiesa – I rapporti tra la Chiesa e la società civile, Milano, 2017, p. 176, osserva come «ogni cristiano interiormente indegno di accostarsi ai sacramenti non abbia in realtà un diritto al riguardo. In effetti, il sacramento appartiene alla persona come suo diritto nella misura in cui la sua ricezione costituisce davvero un segno efficace di grazia. Non esiste una separazione tra realtà giuridica e realtà salvifica: non è giusta una pretesa sacramentale priva di valore salvifico»: cosicché «Se […] esiste un’ingiustizia stabile e manifesta, l’assenza del diritto del fedele può e deve comportare l’impossibilità da parte del ministro della sacra comunione di amministrarla fin quando sussistano quelle circostanze».

[3] Per commenti alla Dichiarazione – pubblicata in Communicationes, XXXII (2000), pp. 159-162 –, si vedano inoltre l’apposita nota di J.I. Arrieta, Il profilo sostanziale dell’interpretazione canonica delle norme, in Ius Ecclesiae, XII (2000), pp. 886-892; nonché J. Bonet Alcón, Comentario a la declaración del Pontificio Consejo para la Interpretación Auténtica de los Textos Legislativos sobre la comunión de los divorciados (Vaticano, 24/6/2000), in Anuario Argentino de Derecho Canónico, VII (2000), pp. 157-160; J. Herranz, Allocutio Em.mi Praesidis apud Universitatem Catholicam Murcensem Sancti Antonii occasione Congressus Eucharistici Internationalis Universitarii habita: La Eucaristía en el ordenamiento jurídico de la Iglesia, 12 novembre 2005, in Communicationes, XXXVII (2005), pp. 154-174.

[4] Cfr. A.S. Sánchez-Gil, La pastorale dei fedeli in situazioni di manifesta indisposizione morale. La necessità di un nuovo paradigma canonico-pastorale dopo l’Evangelii gaudium, in Ius Ecclesiae, XXVI (2014), pp. 564-567. Più in generale, per un commento riguardo al n. 37 della Lettera Enciclica, si veda J.J. Conn, Juridical themes in Eucharistic documents of the pontificate of John Paul II, in Periodica de re canonica, XCIV (2005), pp. 399-402.

[5] In merito al contenuto del can. 916, si rinvia in particolare a C.J. Errázuriz M., Le disposizioni richieste per ricevere l’Eucaristia, alla luce del canone 916 del Codice di Diritto Canonico, in Ius Ecclesiae, XIX (2007), pp. 37-54.

[6] C.J. Errázuriz M., Brevi riflessioni sul rapporto tra diritto e morale nell’ammissione ai sacramenti: il ruolo della giustizia, in Opus humilitatis iustitia. Studi in memoria del Cardinale Velasio De Paolis, vol. I, a cura di L. Sabbarese, Città del Vaticano, p. 185: «abitualmente si presenta una situazione del genere come oggettivamente e gravemente immorale, il che è senz’altro vero; ma penso che sia più preciso parlare di situazione ingiusta, cioè contraria a un diritto dell’altro – delle persone ma anche della Chiesa –, poiché è solo in tal modo, in virtù dell’alterità e dell’esteriorità propria del diritto, che si può configurare una situazione immorale d’indole stabile e oggettiva, la cui esistenza è compatibile con una grande diversità soggettiva sul piano della colpevolezza». Più in generale, in merito alla differenza tra i cann. 915 e 916, I. Gramunt, Non-Admission to Holy Communion: The Interpretation of Canon 915 (CIC), in Studia canonica, XXXV (2001), pp. 179-180, osservava: «When the breach of communion with the Lord and with the Church is public because the person’s grave sin is notorious, or because the person is under the penalties of excommunication or of interdict (which are publicly imposed or declared ratione peccati), c. 915 formulates the prohibition for the external forum. When the breach of ecclesial communion is not public, c. 916 declares the prohibition for the internal forum».

[7] Riguardo al tema dello scandalo, cfr. D.G. Astigueta, Lo scandalo nel CIC: significato e portata giuridica, in Periodica de re canonica, XCII (2003), pp. 589-651.

[8] Cfr. J. Ratzinger, Worthiness to Receive Holy Communion: General Principles, in Origins, XXXIV (2004), pp. 133-134.

[9] A proposito del carattere ‘manifesto’ della condotta indicata al can. 915, si vedano inoltre J. Hendriks, «Non siano ammessi alla sacra comunione... Il c. 915 e le ulteriori prescrizioni ecclesiastiche sull’accesso alla comunione, in Quaderni di diritto ecclesiale, V (1992), pp. 192-204; W. Kowal, The Non-Admission of the Divorced and Remarried Persons to Holy Communion: Canon 915 Revisited, in Studia canonica, XLIX (2015), pp. 411-441. Diversamente, con riferimento a quei soggetti che il can. 855 §2 del Codex del 1917 indicava come ‘peccatori occulti’, J. Herranz, Los límites del derecho a recibir la Comunión, in Ius Canonicum, XLIV (2004), p. 81, ricorda che «es obvio que sí solo el sacerdote conociese esa situación de pecado, y el fiel se acercase a comulgar, debería darle la Comunión para no difamarlo ante la comunidad, aunque tiene la obligación de amonestarle después en privado para que adapte su proceder a la doctrina de la Iglesia».

[10] Circa il ruolo della dimensione pastorale e il suo rapporto con quella dottrinale e con quella giuridica, con specifico riferimento alle questioni poste dal can. 915, si rinvia in particolare a V. De Paolis, I divorziati risposati e i sacramenti dell’Eucaristia e della penitenza, in Permanere nella verità di Cristo. Matrimonio e comunione nella Chiesa cattolica, a cura di R. Dodaro, Siena, 2014, pp. 169-197.

[11] Il testo completo della lettera è stato pubblicato online da S. Magister, Le istruzioni di Roma non fanno pace tra i vescovi americani. Fatti e documenti di una guerra infinita, sul blog Settimo cielo il 28 maggio 2021 (https://bit.ly/2Vsc1ok).

[12] Cfr. D. Salachas, Teologia e disciplina dei sacramenti nei Codici latino e orientale. Studio teologico-giuridico comparativo, Bologna, 1999, pp. 173-174; I. Gramunt, Non-Admission to Holy Communion: The Interpretation of Canon 915 (CIC), cit., pp. 181-182; Id., Sub can. 915, in Comentario exegético al código de derecho canónico, vol. III/1, a cura di Á. Marzoa, J. Miras, R. Rodríguez-Ocaña, 3a ed., Pamplona, 2002, p. 632; D. Mussone, L’Eucaristia nel Codice di Diritto Canonico. Commento ai Can. 897-958, Città del Vaticano, 2002, p. 83, nota 35; Á. Marzoa, Sub can. 915, in Codice di Diritto Canonico e leggi complementari commentato, a cura di J.I. Arrieta, 6a ed., Roma, 2018, p. 618; B.F. Pighin, I sacramenti: dottrina e disciplina canonica, Venezia, 2020, p. 155.

[13] Cfr. Francesco, Costituzione Apostolica Pascite gregem Dei, 23 maggio 2021, in L’osservatore romano, 1° giugno 2021, pp. 2-4. È rimasto invece immutato il testo latino del precedente can. 1398, ora al can. 1397 §2, in base al quale chi procura l’aborto ottenendo l’effetto incorre nella scomunica latae sententiae: una disposizione ulteriore è stata però aggiunta al paragrafo successivo, secondo cui, nei casi più gravi contemplati dallo stesso canone – il cui §1 si riferisce anche a chi commette omicidio, rapisce oppure detiene con la violenza o la frode una persona, o la mutila o la ferisce gravemente – e qualora il reo fosse un chierico, quest’ultimo deve essere inoltre dimesso dallo stato clericale. Una precisazione lessicale, tuttavia, è intervenuta anche nella traduzione inglese del §2, nella quale è stato aggiunto che la sanzione in questione concerne coloro che ‘effettivamente’ procurano l’aborto («A person who actually procures an abortion incurs a latae sententiae excommunication»). Secondo quanto osservato da E. Condon, J.D. Flynn, The Church’s new penal canon law: the good, the bad, and the ugly, in The Pillar, 1° giugno 2021, consultabile online all’indirizzo https://www.pillarcatholic.com/p/the-churchs-new-penal-canon-law-the, la ragione di tale modifica sarebbe da ricondurre proprio alla volontà di sottolineare – in risposta indiretta alle ricostruzioni in senso contrario talora avanzate da commentatori a livello ‘divulgativo’ e giornalistico – come la canonistica abbia precisato che la disposizione riguarda esclusivamente i soggetti coinvolti in via diretta nel delitto, e non anche le figure politiche che pure lo hanno promosso: difatti, come compendiato da B.F. Pighin, Diritto penale canonico, nuova edizione riveduta e ampliata, Venezia, 2014, p. 538, «La pena canonica è inflitta direttamente alla donna gravida interessata ad abortire e attivatasi per realizzare l’obiettivo, quando questo viene raggiunto con certezza in forma chirurgica. Nella consumazione del delitto, essa figura come mandante e complice necessaria, mentre il medico abortista si fa esecutore materiale del reato richiesto, del quale sono pure imputabili e quindi punibili con la sanzione latae sententiae gli operatori sanitari complici necessari (cfr. can. 1329, §2). Assumono questo ruolo il medico anestesista, gli infermieri e altre figure professionali che cooperano direttamente e specificamente nell’operazione chirurgica abortiva, sia in forma immediata che prossima. Invece rimangono esclusi dal novero, a parte la loro grave responsabilità morale, gli istigatori – tali possono essere il padre del feto abortito e i genitori della madre del medesimo concepito – e i complici accessori nonché i cooperatori in forma remota».

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