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Omelia: IV Doménica di Quaresima | Anno C

Letture della messa del giorno

Dice il libro dei Proverbî: «Agli occhî dell’uomo tutte le sue òpere sèmbrano pure, ma chi scruta gli spíriti è il Signore» (Pr 16, v.2). Con queste parole accostiàmoci ai testi di questa Doménica e lasciàmoci scrutare dal Signore, che sa riconóscere bene che tipo di figlî siamo; se e quanto lo amiamo come Padre; se e quanto ci sentiamo a casa nella sua volontà.

Il brano evangèlico è notíssimo: non ha bisogno di presentazioni e nemmeno di tanti commenti: dovremmo solo lèggerlo lentamente e attentamente, fermàndoci a vedere come agisce il padre dei due figlî, e come agíscono il fíglio maggiore e il minore. Riflettendo su ogni particolare, verrà fuori questa verità: che chi sta male a casa pròpria non ha ancora conosciuto l’amore del Padre e ne cerca altri, purtroppo avvilenti. Abbiamo infatti tre protagonisti in questa paràbola: il Padre che ama sempre e senza misura; il fíglio maggiore che è sèrio e ubbidiente, ma ha gli occhî altezzosi e lo sguardo deformato su tutto e su tutti, perché consídera solo il dovér fare e non il dovér èssere. E infine il fíglio minore, che ha dato il nome a questa paràbola: “Paràbola del figliuòl pròdigo”. Egli, infatti, piú desideroso di feste e di divertimento, di indipendenza e di “trattamenti di fine rapporto”, pur restando “figliuolo” per il suo papà, è “pròdigo”, cioè sperperatore dei beni ricevuti.

Dietro ciascún personàggio ci stanno persone reali che il Vangelo accenna o descrive riguardo ad alcuni aspetti, ma non a tutto tondo. È chiaro, ad esèmpio, che il padre della paràbola è Dio, ma per quanto buono, in attesa, che va incontro a chi torna pentito, che fa festa per il fíglio ritrovato, egli non descrive la presenza di Dio anche nel paese lontano in cui è finito il fíglio minore. Dio infatti ci ségue ovunque e ci dà i richiami interiori ed esterni di cui abbiamo bisogno, ovunque ci troviamo. Dunque Dio è di piú e sempre di piú di quanto possiamo pensare noi e di quanto può dirci una paràbola.

Poi abbiamo i due figlî della paràbola, che non hanno capito la fortuna, la gràzia e la bellezza di avere questo padre. In essi riconosciamo tutti coloro che hanno scelto di èssere òrfani del Padre eterno con questi due atteggiamenti: la supèrbia degli occhî e della vita e la concupiscenza della carne. Entrambi i figlî abbandònano il padre, ma uno andàndosene a prostitute e conducendo una vita dissoluta, cioè senza règole e solo pensando a festeggiare la sua libertà dal padre della vita; l’altro, il fíglio maggiore, abbandona il padre pur restàndogli accanto e al suo servízio, perché lo consídera un datore di lavoro (finché non ritorna il fratello minore), e un ingiusto datore di premî (appena ritorna il fratello minore e gli viene riferito il trattamento gioioso del padre). Ebbene: ¿sapete che cosa dice la Sacra Scrittura di questi figlî che abbandònano il padre? Ve lo dico io: «Chi abbandona il padre è come un bestemmiatore» (Sir 3, v.16), dice il Siràcide. Tenendo conto che parliamo di Dio, che è Amore perfetto e sconfinato, stiamo scoprendo da questa paràbola che Dio lo si può bestemmiare in due modi: con le parole e con i fatti. Con le parole: «Padre, dammi la parte di patrimònio che mi spetta» (Lc 15, v.12); che crudelmente detto e manifestando i sentimenti sottesi a questa richiesta, vuol dire: «Dammi la mia eredità, morto». Questa è la bestèmmia a parole del fíglio minore, a cui si aggiunge quella di volér dire: «Tràttami come un tuo salariato!» (Lc 15, v.19). Il maggiore invece bestèmmia cosí, a parole: «Tu non mi hai dato un capretto per far festa con i miei amici…e per questo tuo fíglio hai ammazzato il vitello grasso». Ma si può bestemmiare anche con i fatti: il maggiore si indignò per la bontà e la giòia del padre; il minore se ne andò in un paese lontano dove fece il contràrio di ciò che gli era stato insegnato dal padre.

Nessuno dei due aveva pregato con queste parole dell’Ecclesiàstico o Siràcide, che dir si vòglia: «Signore, padre e Dio della mia vita, non darmi l’arroganza degli occhî e allontana da me ogni smodato desidèrio. Sensualità e libídine non s’impadroníscano di me, a desiderî vergognosi non mi abbandonare» (Sir 23, 4-6). Invece i due figlî della paràbola hanno fatto pròprio questo: si sono abbandonati a desiderî vergognosi e hanno abbandonato il Padre della vita. La loro bestèmmia contro Dio è questa: per il píccolo è ingombrante e non sa fare gioire veramente i suoi figlî (e infatti cerca la giòia altrove). Per il grande invece non sa premiare chi lo serve (e anche questa è una bestèmmia).

¿Vedete, cari fratelli e sorelle, quanto è fàcile abbandonare Dio e, dunque, bestemmiarlo?

«Chi abbandona il padre è come un bestemmiatore» (Sir 3, v.16), perché non riconosce chi gli dà la vita e chi gli dà la giòia.

Stiamo attenti, dunque, a non abbandonare Dio in uno dei due modi che la paràbola ci ha insegnato. Si può abbandonarlo con púbblico rifiuto di tutto ciò che ce lo ricorda: la Chiesa, i sacerdoti, i comandamenti, le cose sacre, la preghiera, i símboli della fede. Ma si può abbandonarlo anche con la distanza del cuore; con la freddezza del cuore che eségue senza amare profondamente. Quindi, si rispèttano i comandamenti, ma non si è in Cristo nuove creature: non si è figlî perfettamente somiglianti a Gesú! ¿E sapete da che cosa si vede questo? Da come parliamo degli altri. Da come parliamo dei nostri fratelli, spècie se li abbiamo conosciuti traviati e ora li vediamo nuove creature, cambiate, riconciliate con Dio e con tutti. Se le nostre parole disprèzzano qualcuno sulla base del suo passato, e non sanno gioire del suo presente, siamo del número dei fratelli maggiori, a cui il Padre misericordioso ricorda: «Fíglio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato» (Lc 15, 31-32).

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